Cari lettori, ben ritrovati.
Lo scorso maggio ci siamo incamminati lungo il sentiero della scoperta del lavoro post-digitale: esiste o si tratta di un miraggio causato dall’uso prolungato della mascherina di protezione dal covid-19¹?
Ci siamo detti che il lavoro post-digitale è la condizione lavorativa nella quale la tecnologia digitale è integrata nell’attività umana (anziché come nel digitale essere distinta da essa); più precisamente, è un effetto della velocità di trasformazione della interazione delle persone con la tecnologia digitale. Abbiamo portato la nostra attenzione sulla circostanza che in questa fase di transizione al lavoro post-digitale le contrapposizioni lavoro materiale vs. immateriale e nativo digitale vs. migrante digitale diventano irrilevanti e lasciano spazio all’individuo e alla sua capacità di essere parte di una comunità professionale.
Ci siamo confermati che lavorare in modo flessibile è oramai una super tendenza globale basata sulla consapevolezza che rendere il modo di lavorare personalizzabile mette le persone in condizione di essere più produttive dando modo alle organizzazioni di essere più resilienti. Abbiamo visto che la tecnologia digitale aiuta questo trend; ma i due fenomeni più che interdipendenti sono concomitanti.
Di fronte alle numerose connessioni tra intelligenza artificiale e futuro del lavoro ci siamo interrogati in particolare sulle capacità personali di integrazione corpo-strumento e di stabilire collegamenti con gli altri esseri umani.
Insomma, abbiamo indicato che anche nell’orizzonte del post-digitale il “lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa, la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta” (Karl Polanyi, La grande trasformazione).
Oggi, vi propongo un semplice test per vedere se nella specifica realtà organizzativa di vostro interesse ci sono o meno le condizioni perché la transizione al lavoro post-digitale avvenga ed in modo equilibrato rispetto alle aspettative che potete avere.
Partiamo da un dato di fatto: se lavoriamo è perché la nostra opera, il nostro contributo sono funzionali al risultato di altri, spesso di un’organizzazione, cioè di un’entità astratta.
Quello che però può essere meno evidente, e che può avere molto peso anche nella transizione al digitale, è il fatto che ogni organizzazione nel corso del tempo per realizzare i suoi “purpose, vision & strategy” ² si dà una forma e che questa opera di strutturazione determina il suo footprint, insomma una vera e propria impronta.
Analogamente all’impronta ecologica ³ , il footprint organizzativo ci fa vedere qual è l’impatto duraturo della configurazione scelta per realizzare le strategie adottate sull’ecosistema ospitante, dal quale l’organizzazione dipende per la sua stessa esistenza e del quale voi siete un elemento costitutivo necessario per una relazione equilibrata e proficua.
Il footprint di un’organizzazione ci dice, quindi, le conseguenze “ambientali” dei suoi processi produttivi, del ciclo di vita dei suoi prodotti o servizi, della customer experience che genera, dell’employee value proposition che offre e, alla stregua di ogni altra impronta, anche questa ha effetti tendenzialmente permanenti e interconnessi, che fanno prevedere la traiettoria inerziale dell’organizzazione in assenza di una specifica strategia di cambiamento.
Perciò, se volete sapere se è come avverrà la transizione al post-digitale in un’organizzazione, osservate la sua impronta, perché essa non è casuale né effimera e nemmeno indipendente dalla strategia aziendale, ma è proprio il risultato della valutazione fatta dal gruppo dirigente dei trade-off ottimali, a partire dalla sua comprensione della realtà, tra differenti driver (per esempio, produttività vs. costi di esercizio oppure conservazione del modello d’impresa vs. la sua trasformazione/rigenerazione).
Ai fini del nostro test andiamo, quindi, a verificare che cosa troviamo nell’impronta dell’organizzazione per la persona e, soprattutto, quale cura delle sue capacità è assicurata secondo la prospettiva del capability approach⁴. Facciamoci questa domanda: esiste un sistema che dà all’individuo opportunità di sviluppare le proprie abilità verso competenze nuove dandogli modo di accedere a risorse materiali ed immateriali a ciò dedicate?
Teniamo in conto che tanto più limitato sarà l’accesso alle risorse che favoriscono lo sviluppo personale quanto maggiore sarà la vulnerabilità professionale percepita dalla persona e conseguentemente tanto maggiore la sua resistenza ad adottare nuove modalità lavorative.
Perciò, con la risposta alla domanda possiamo stabilire se l’organizzazione si sta muovendo oppure no verso un modello post-digitale ed identificare le condizioni che favoriscono o limitano l’accesso del suo personale alle risorse che permettono lo sviluppo delle capacità che gli faranno cogliere le opportunità della transizione al post-digitale.
Questo stesso test può anche aiutarci a capire il disagio di alcuni di fronte all’esplosione del home working da covid-19. Infatti, tutti, credo, hanno sentito su di sé la responsabilità per il risultato richiesto assommarsi alla necessità di fare funzionare comunque processi produttivi progettati per la compresenza negli uffici e negli stabilimenti. Simmetricamente, l’organizzazione ha aperto i propri processi ai contributi adattativi dei singoli? Ha facilitato quanto più possibile soluzioni che supportano lo sviluppo delle competenze di ruolo e anche quelle di team working e di collaboration della persona? Ha corretto eventualmente il proprio footprint per assicurare la necessaria coerenza col ruolo agito dal singolo e dargli l’indispensabile accesso alla propria comunità professionale?
Nella transizione al post-digitale la comprensione di quel disagio può essere una guida; perché nessuna tecnologia di collaborazione da remoto oggi disponibile può di per sé sostituire l’integrazione in un sistema. Tuttavia, un sistema che non è già orientato ad adottare le tecnologie digitali in una prospettiva di capability approach insisterà sull’accettazione di processi chiusi (nell’illusione che essi garantiscano il risultato voluto) anziché assicurare le condizioni di accesso alle risorse che mettono in condizione il singolo di contribuire al successo del gruppo, con l’effetto paradossale di generare incompetenza nelle proprie persone.
Cari lettori, com’è andato il vostro test?
Prima di darci appuntamento al prossimo post desidero rivolgervi ancora una domanda.
Possiamo ipotizzare che le tecnologie che abilitano la digitalizzazione della gestione dell’attività lavorativa sono efficaci se e solo se coerenti col modello organizzativo e coi processi che supportano e se questi tengono conto della necessità di aggiornare le competenze delle persone?
¹Mi raccomando: indossiamola!
² V. https://www.efqm.org/index.php/efqm-model/ per approfondimenti.
³ V. M. Wackernagel e W. Rees in Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth, 1996
⁴ v. p.e. A. Sen, Development as Freedom.