Un mese fa, più o meno, vi avevo proposto un test molto semplice per vedere se nella specifica realtà organizzativa di vostro interesse ci sono o meno le condizioni perché la transizione al lavoro post-digitale avvenga ed in modo equilibrato rispetto alle aspettative che potete avere.
Spero che abbiate avuto modo di apprezzarlo. Se avete piacere, potete raccontarmi la vostra esperienza scrivendo a iapichino@digital4pro.com.
Con il test abbiamo completato la preparazione del nostro campo-base per vedere se anche per il lavoro post-digitale vale l’affermazione di Karl Polanyi in La grande trasformazione :
“il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa, la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta”.
I più attenti tra voi avranno già notato una mia certa propensione a ripetere questa citazione, lo ammetto: fa risuonare in me il nocciolo delle motivazioni che ci fanno compiere quella attività chiamata “lavoro”. E credo di essere in buona compagnia, se è almeno un po’ vero quello che scrive Edgar Morin in Cambiamo strada, Le 15 lezioni del coronavirus:
“…le soluzioni immediate all’improvvisa paralisi economica del confinamento mondiale sono state opposte rispetto al dogma che governava l’economia: hanno introdotto il controllo dello Stato laddove lo si sopprimeva, hanno introdotto tutele per un’autonomia economica di base laddove era esaltato il libero commercio. Questo ribaltamento giustifica quindi le critiche principali rivolte al neoliberismo e stimola le proposte di un cambiamento radicale di direzione, che rilanci l’occupazione, il consumo e il livello di vita soprattutto attraverso un new deal ecologico-economico”.
Spero di non abusare della vostra disponibilità a leggermi, ma davvero come meglio potremmo spingere il nostro sguardo sulla transizione che stiamo affrontando se non ribaltandolo e volgendolo verso il lato trascurato del lavoro, cioè il benessere?
Per riuscire a figurarci il lavoro post digitale vogliamo provare a considerare il nostro lavorare dalla prospettiva dei benefici che ci dà oggi e che potrà assicurarci domani? Vogliamo sollevare, almeno un po’, il velo delle nostre motivazioni ad affrontare questa transizione?
Il lavoro moderno è un’interfaccia sociale con la sua storia innervata in quella del salario, che a lungo è stato l’indicatore diretto del benessere (materiale) di cui chi lavorava avrebbe potuto appropriarsi.
Tuttavia, il salario è uno strumento creato per strutture sociali piramidali caratterizzate da una robusta simmetria tra prestazione e corrispettivo, mentre oggi le società dei Paesi sviluppati stanno rapidamente convergendo verso forme a clessidra con un vertice stretto, una base larga e niente nel mezzo…e non vedo all’orizzonte programmi statuali intesi a mitigare o, tantomeno, a contrastare questa tendenza.
Perciò, questa capacità del salario, che era già entrata in crisi con i dissesti economici della prima decade del secolo, oggi, con il diffuso inceppamento degli ascensori sociali e col perdurante bisogno di migliorare i nostri livelli di vita qualitativi prima ancora che meramente quantitativi, è in affanno, come ci testimoniano le difficoltà a chiudere le trattative dei rinnovi dei contratti collettivi di lavoro.
Una risposta al problema può venire dalla graduale e parziale sostituzione della retribuzione in moneta con un’offerta di servizi di welfare aziendale, cioè forme di retribuzione che agiscono a livello di “comunità” in supplenza o sinergia con i soggetti che della comunità dovrebbero avere cura (Stato, Enti territoriali, ma anche Associazioni)
Se questa trasformazione, già avviata negli anni scorsi proprio come risposta alle crisi economiche del primo decennio, si consoliderà integrando la portata microeconomica del salario, il lavoro potrà esercitare la sua funzione di sviluppo macroeconomico e di promozione sociale.
In questo futuro il welfare erogato dall’impresa ai propri associati, superata la mera funzione compensativa del salario in moneta, potrà sia redistribuire valore sia valorizzare le qualità delle persone che l’Azienda impiega allargando il suo campo di azione alle attività di inclusione.
Questo welfare d’impresa metterà l’Azienda in condizione di dialogare con tutti gli stakeholder, a partire dalla società civile, sempre più attenta a questo tipo di tematiche e aperta a riconoscere valore alle aziende che le trattano e che così hanno un vero e proprio strumento di competizione capace di attrarre talenti, clienti ed investitori e, soprattutto, creare valore per la comunità.
Questo approccio, infine, favorirà il dialogo tra i soggetti che dirigono Istituzioni e Imprese in campi quali sicurezza, produttività, costo del lavoro, relazioni industriali, tecnologie della comunicazione, sviluppo strategico, corporate social responsability e sviluppo delle competenze.
Questo welfare del mondo del lavoro, quindi, non solo erogherà servizi e benefit in risposta a bisogni reali per migliorare il clima dell’organizzazione, ma promuoverà una relazione fondata sui risultati (che sono i presupposti della sostenibilità della relazione stessa).
Tutto questo per funzionare necessiterà di un vero e proprio sistema nel quale collegare risorse, servizi e beneficiari.
Un sistema che avrà i propri abilitatori in business case, key performance indicator, tecnlogia digitale, partnership, piani di comunicazione, certificazione di qualità e sinergia con le altre forme di welfare (quello pubblico, ma anche tutte le altre forme private).
Perciò, per leggere il futuro nei prossimi post ripercorreremo la storia del welfare aziendale per arrivare poi a un focus su come la transizione al post digitale può impattare sull’evoluzione dei servizi di welfare avendo sempre in mente che … il “lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa, la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta” (Karl Polanyi, La grande trasformazione).
Proseguiamo?