Il calcolo del costo unitario di prodotto impostato in base al sistema dei centri di costo consente, come visto nel nostro articolo La determinazione del costo di prodotto: gli approcci tradizionali, di dare il giusto rilievo alle diverse modalità con cui i prodotti incrociano e impegnano le fasi del processo di produzione. Tra i metodi tradizionali è questo sicuramente quello più evoluto e completo.
Tuttavia, a un’analisi più attenta, la metodologia in oggetto presenta lacune rilevanti che diventano particolarmente critiche se si osservano le modalità con cui questa viene di norma concretamente applicata.
Attraverso il sistema dei centri di costo, si riesce ad articolare in modo estremamente dettagliato e compiuto l’area della produzione, mentre permangono taluni vincoli alla segmentazione analitica delle strutture erogatrici di servizi. Conseguentemente l’imputazione dei costi ai prodotti tende ad avere diversa significatività secondo l’area funzionale cui pertengono.
Ciò perché la struttura fisica del processo di trasformazione, di per sé, consente e facilita la frammentazione dettagliata del ciclo produttivo globale in sottoinsiemi omogenei per tipologia di attività svolta. Questo è soprattutto vero nel caso in cui il processo sia organizzato per operazioni e, quindi, si snodi per reparti omogenei tra loro differentemente combinabili nei cicli di lavorazione dei singoli prodotti. Tanto che, spesso, si fa riferimento ai sistemi di determinazione dei costi con il termine contabilità industriale, espressione che bene richiama la vocazione originaria della metodologia di calcolo orientata alle fasi.
Alla elevata analiticità del calcolo dei costi in area industriale si contrappone invece la bassa articolazione dei processi di imputazione dei costi di pertinenza delle strutture erogatrici di servizi quali l’area commerciale e l’area amministrativa. Per tali costi, di norma, si ricorre all’approccio funzionale per cui i costi indiretti vengono tra loro sommati e imputati in modo indistinto ai prodotti mediante una serie di ripartizioni
solitamente espressione dei volumi di attività individuabili di volta in volta nel costo diretto, nelle ore o nel costo del lavoro diretto ovvero nelle ore macchina.
Secondo la logica descritta, le trappole del costo medio continua ad operare: dove la varietà delle produzioni attuate convive con il ricorso differenziato alle strutture non produttive, il calcolo così impostato non permette di evidenziare nel costo di prodotto la diversa intensità di assorbimento di risorse. Ciò accade in tutti quei casi in cui la differenziazione del valore dei prodotti non deriva dal processo industriale ma, al contrario, va ricercata nel diverso apporto fornito dalle strutture indirette che presiedono le attività di progettazione, di gestione di componenti speciali, di collaudo, di gestione commerciale e finanziaria…
L’idea di impostare il processo di calcolo del costo di prodotto facendo perno sulle attività, si sviluppa e si afferma nella prima metà degli anni ottanta del secolo scorso proprio per ovviare alle lacune appena evidenziate e trova terreno fertile soprattutto nel mondo anglosassone. In tali contesti, il ricorso al sistema patrimoniale porta di necessità a inglobare la determinazione del costo di prodotto tra i meccanismi di funzionamento del sistema contabile quantomeno a fini di valorizzazione delle giacenze di prodotti finiti e semilavorati. Ne consegue la ricerca della semplificazione delle procedure di calcolo che si risolvono nella semplice aggregazione di tre componenti distinte:
I costi indiretti, in particolare, non vengono articolati, ma sono di norma imputati all’unità di prodotto in base al più immediato, ma anche al meno corretto degli approcci tradizionali citati nel nostro articolo La determinazione del costo di prodotto: gli approcci tradizionali: quello orientato ai fattori produttivi.
Il modificarsi dell’economia delle imprese, unitamente alla crescita dei costi indiretti non industriali, rende sempre più evidente l’inadeguatezza dei costi di prodotto così determinati per impostare politiche di gestione coerenti. L’informazione che ne deriva risulta eccessivamente semplificata e, sovente, palesemente fuorviante. Vi è dunque l’esigenza di disporre di sistemi di misurazione differenziati per le diverse finalità.
Il metodo dell’Activity Based Costing si fonda su un concetto primario che in sé costituisce un’estensione del sistema orientato alle fasi: la determinazione del costo di prodotto deve essere impostata aggregando in via preliminare i costi non rispetto ai centri di costo, bensì facendo riferimento alle attività svolte dalle diverse aree funzionali.
I costi così aggregati (activity pool) vengono quindi imputati ai prodotti in base a opportuni parametri, cioè i fattori determinanti il livello di costo delle singole attività (cost driver), scelti in modo da evidenziare le ragioni di fluttuazione dei costi compresi nell’aggregato preso riferimento.
I prodotti consumano attività e le attività generano costi. Il calcolo del costo di prodotto deve quindi fare perno sulle attività.
Il concetto di attività risulta soprattutto utile per impostare l’imputazione dei costi relativi alle strutture indirette. È proprio con riguardo alle modalità di imputazione dei costi indiretti collegati alle strutture non industriali che l’applicazione dell’Activity Based Costing si rivela maggiormente proficua.
Ogni area funzionale svolge al proprio interno attività spesso molto differenziate che però, non essendo organizzativamente separate o separabili come invece accade con i reparti nell’area della produzione, non vengono di norma isolate dal metodo tradizionale attraverso la creazione di opportuni centri di costo. Inoltre i costi riferibili a tali attività non sono di norma correlati ai volumi di produzione, ma rispondono invece ad altri fattori determinanti (driver) solitamente collegati ad aspetti di complessità organizzativa.