Nel mondo sono diversi i paesi che stanno pensando – o qualcuno più avanti, sperimentando la settimana lavorativa corta su quattro giorni.
Il mio pensiero va subito a tutti quei lavoratori, colleghi e amici che raccontano – a volte con lieve imbarazzo – l’affanno in cui vivono costantemente tra le troppe cose da fare e il poco tempo a disposizione. Quanti di voi si ritrovano con mail smistate o quantomeno lette dopocena? Week-end passati tra famiglia e presentazioni da terminare? Giornata lavorativa che inizia molto presto e finisce molto tardi, ben oltre il normale orario di lavoro? E come non citare qualche riunione fissata anche durante la pausa pranzo?
Non si tratta di incapacità di gestire il tempo, o almeno non è solo questo. Con differenze legate ai ruoli, alle realtà aziendali, agli usi e alle abitudini consolidate nel tempo, penso che quasi trasversalmente in tutte le aziende ci siano ampi margini di miglioramento.
È in questo scenario che si fa sempre più strada la volontà di capire se sia possibile arrivare ad un migliore equilibrio tra benessere del dipendente e la produttività riducendo il tempo speso al lavoro.
Sembra un’equazione impossibile tanto quanto affascinante e le fazioni pro e contro sono liquide, continuamente in movimento.
Il tema è aperto su più fronti: stiamo parlando di una scelta su base volontaria dei lavoratori? Le ore di lavoro al giorno rimangono invariate o aumentano? Lo stipendio viene toccato? Presenza in ufficio o smart working?
È chiaro che la geometria variabile di tutte le possibili combinazioni sul tavolo rende il tema ancora più complesso e le posizioni a sostegno o avverse si frammentano ulteriormente.
Senza troppa sofisticazione, comunque, l’idea di tre giorni liberi ogni quattro di lavoro è davvero allettante e se si unisce al dichiarato obiettivo di “lavorare meno, lavorare meglio”, è facile capire quanto l’ipotesi possa diventare attraente.
Diversi studi sul tema attestano i benefici che porta il miglioramento dell’equilibrio vita lavoro: la produttività non cala – anzi, a volte migliora – così come il rendimento in generale; lo stress diminuisce e spesso si riesce a conciliare meglio lavoro e vita privata. La conseguenza è che si tende ad essere più sereni e felici, aumenta la motivazione e si instaura un circolo virtuoso con evidenti benefici per le persone e per le aziende. Ad un aumento di coinvolgimento, poi, è legato quasi sempre un calo dell’assenteismo e nel complesso si riscontra un approccio più positivo al lavoro.
Di questi tempi, poi, come non pensare anche al vantaggioso impatto sull’ambiente? Meno lavoratori che ogni giorno devono spostarsi verso il luogo di lavoro, meno pc accesi, meno cellulari usati per chiamate di lavoro.
Quindi tutto perfetto? No – ovviamente ci sono parimenti alcuni evidenti contro che si oppongono ai pro appena visti.
Il costo del lavoro per l’azienda potrebbe aumentare, se nella condizione di dover incrementare la forza lavoro – in controtendenza con le continue necessità di abbatterlo. Ovvero, se le aziende non integrano le persone, si può arrivare ad una compressione delle attività pro-capite che evidentemente brucerebbe le positività che ho magnificato prima. E da non tralasciare poi l’impatto sui clienti, oggi sempre più abituati ad una disponibilità se non continua, comunque molto ampia e spesso ben oltre l’arco orario previsto.
Peraltro, come ovvio che sia, non tutte le persone sono ferventi sostenitori della settimana corta che, se vista sotto altri punti di vista, è comunque imperfetta. Tanti aspetti positivi, ma c’è anche una realtà più complicata.
Voci di chi ha sperimentato the 4-days week raccontano sì del piacere di avere tre giorni liberi a settimana, ma anche di giornate di lavoro compresse, al limite dell’estremo. A volte il giorno libero in più serve quasi del tutto per riprendersi dal ritmo e dalle fatiche dei quattro giorni lavorativi. Per rimanere al passo si accorciano se non eliminano del tutto le pause, gli scambi e i confronti con i colleghi. E se è vero che per molti è importante avere più tempo libero per gestire meglio i propri impegni, non tutti sentono davvero il bisogno di correre subito a casa. C’è chi nel lavoro e nelle relazioni con i colleghi trova una componente molto importante, fondamentale nella propria vita: l’ambiente di lavoro è per tanti la prima fonte di socializzazione. E il rischio di lavorare il quinto giorno da casa per riempire il vuoto lasciato da altre cose non è così inimmaginabile.
Come sempre capita, ogni questione porta con sé lati positivi e negativi. Il tema della settimana lavorativa corta non si discosta da questo corollario naturale.
È anche per questo che, ragionando a ruota libera, mi sorge il dubbio che forse non si è del tutto pronti al salto epocale verso la settimana corta. Su questi temi è abbastanza ovvio che si debba immaginare una lenta transizione che, nel caso specifico, deve prendere il via con una nuova consapevolezza ad ogni livello delle organizzazioni lavorative, ciascuno per quanto di competenza.
Uno dei primi passi da fare è lavorare da una lato sull’organizzazione e l’ottimizzazione dei processi e dall’altro sulla mentalità delle persone.
In questo senso basti pensare a ciò che è successo con lo smartworking, che è esemplare. L’imprevista emergenza Covid ha spinto in pochissimo tempo molte realtà del tutto impreparate verso un nuovo modello di lavoro, con risultati non proprio brillanti né per l’azienda né per i lavoratori. Un rapido mutamento di prospettiva che ha messo in evidenza tutti i limiti di gestire un grande cambiamento se non pronti, convinti e consapevoli.
Ma proprio la forzata esperienza dello smartworking potrebbe essere l’apripista per questa nuova quanto interessante evoluzione.
Le chiavi di successo verso la settimana corta potranno essere ancora una volta, in primis, evoluzione tecnologica e manager illuminati. Quindi ricerca, sviluppo, formazione e dipendenti pronti al salto culturale.
Ogni innovazione ha dei costi e anche in questo caso serve guardare in avanti per vedere i ritorni nel medio periodo, tenendo conto che nel mondo vi sono – a macchia di leopardo – diverse esperienza che confermano la bontà della settimana corta sotto tanti aspetti.
Occorre anche sottolineare che la settimana corta piace in particolare ai giovani, soprattutto ai talenti che hanno sperimentato ambienti internazionali e che sono attratti dalle aziende che offrono l’opportunità di lavorare in condizioni ottimali. Tra i benefici della settimana corta, quindi, si può annoverare anche l’attrattività dell’azienda per i migliori in campo e soprattutto la riduzione del turn over dei dipendenti.
E magari – ancora: potrebbe essere la settimana corta un deterrente per contrastare il fenomeno delle Great Resignation (grandi dimissioni) che sta caratterizzando globalmente il mondo del lavoro negli ultimi mesi?
Il tema, concorderete con me, è particolarmente interessante sotto tutte le sfaccettature viste.
Nella realtà dei fatti oggi le aziende spingono, a volte per vera e propria sopravvivenza, a ridurre i costi comprimendo tutta l’attività su pochi, mentre le persone cercano – e spesso ne hanno davvero bisogno, maggiore tempo libero non solo per svagarsi, ma anche per gestire al meglio i propri legittimi impegni personali e familiari.
L’idea di avvicinare fino a fare sovrapporre queste due opposte prospettive è suggestiva e ancora una volta le aziende vincenti saranno quelle che non accantoneranno il tema, ma inizieranno subito a muoversi verso il traguardo studiando e pianificando il percorso migliore per le proprie caratteristiche.
Mi piace definirlo come l’ammirevole “coraggio manageriale” di chi si muove con lungimiranza, senza temere, anzi sostenendo – i cambiamenti.