Il lavoro post digitale

Il lavoro post digitale

Lavoro e transizione digitale
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Post digital work
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Poi, in Occidente è arrivato un cigno nero a fare da acceleratore: la pandemia da COVID-19

Il 9 marzo 2020 le agenzie di stampa battevano che l’amministratore delegato di Apple, Tim Cook offriva ai dipendenti della maggior parte dei suoi uffici in tutto il mondo la possibilità di lavorare da casa e definendo l’epidemia di coronavirus un “evento senza precedenti”. Cook invitava il personale a “sentirsi liberi di lavorare in remoto se il lavoro lo consente“.

Il 26 marzo 2020 la European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions dichiarava che COVID-19 potrebbe avere un impatto permanente in Europa sulle condizioni di lavoro digitali da remoto andando a cambiare stabilmente la relazione tra datore di lavoro e lavoratore.

Ed infatti il 20 marzo 2020 l’Osservatorio 4.Manager con una ricerca sull’evoluzione dello smart working, anche alla luce dei provvedimenti presi per far fronte all’emergenza sanitaria in corso, basata sull’interesse degli utenti Google (fonte Google Trends) sul tema tra  il 9 dicembre 2019 e il 9 marzo 2020 registrava una crescita esponenziale delle ricerche, a fronte di un andamento sostanzialmente piatto nei 70 giorni precedenti. Il dato ci dice quanto, con l’emergenza, lo smart working sia diventato istantaneamente da fenomeno di nicchia a fenomeno di massa. 4.Manager ipotizzando che passata la pandemia potremmo trovarci di fronte a uno scenario completamente nuovo sia in virtù dell’esperienza avviata nelle settimane del contenimento del Covid-19 da decine di migliaia di imprese e milioni di lavoratori e sia, soprattutto, sotto il profilo delle culture delle organizzazioni, invita a prima mettere al centro le persone e poi pensare alla tecnologia. Certo una maggiore diffusione dello smart working può determinare vantaggi diffusi per il sistema delle imprese, per l’ambiente e per i lavoratori (p.e.  riduzione dei costi fissi legati al dimensionamento e al costo degli uffici, riduzione del traffico, con benefici sulla produttività delle catene logistiche, riduzione dell’inquinamento atmosferico). In particolare, secondo le stime correnti, 1 milione di lavoratori in più in modalità smart working al 50% del tempo permetterebbe di ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera nell’ordine delle diverse centinaia di migliaia di tonnellate all’anno

In effetti, il 15 aprile 2020 in base ai dati calcolati da #ColleghiAmoilLavoro, la piattaforma di Jojob che permette di quantificare gli effetti del lavoro a distanza, dall’inizio dell’emergenza sanitaria, che ha portato aziende e dipendenti a rivedere le modalità di lavoro, con lo smart working gli italiani registrati sulla piattaforma fino a quel momento avevano risparmiato più di 100mila euro, accumulato oltre 10mila ore di tempo libero e non emesso in atmosfera oltre 60 tonnellate di Co2. Grazie ai suoi algoritmi #ColleghiAmoilLavoro quantifica il risparmio di tempo legato al lavoro da remoto, nonché quello economico ed ambientale (in termini di Co2 non emessa) accumulato dai lavoratori che non devono spostarsi ogni giorno con automobile o mezzi pubblici.

18 aprile 2020, la Fistel della Toscana comunica ai media che, con un’iniziativa probabilmente senza precedenti italiani per dimensioni, darà modo ai circa 2.500 lavoratori toscani di Tim di partecipare attivamente con una apposita app, in diversi orari, alle assemblee sindacali informative su un accordo sottoscritto con la loro azienda il 6 aprile 2020.

Siamo, insomma, di fronte ad un’accelerazione che trasforma in azioni concrete il senso di urgenza già contenuto in studi quali Structural Transformation in the OECD – DIGITALISATION, DEINDUSTRIALISATION AND THE FUTURE OF WORK di Thor Berger e Carl Benedikt Frey dove si sottolineava la necessità dello skill upgrading a fronte della significativa alterazione della configurazione dei mestieri conseguente all’impatto delle tecnologie digitali. In pratica la pandemia ha spinto ancora più a fondo l’ubiquità del digitale.

Per definire la realtà ci può essere utile prendere la metafora di George Westerman 1 e dire che non occorre più che le organizzazioni cerchino di diventare dei caterpillar più veloci perché si stanno già trasformando in farfalle, almeno alcune di loro; cioè i cambiamenti che stanno avvenendo nel lavoro sono trasformazionali e non semplicemente incrementali.

Quindi, la crisi sanitaria ci sta drammaticamente aiutando nella transizione al post-digitale?

Presto per dirlo.

Infatti, lo smart working si sta confermando capace di essere un veicolo di trasformazione dell’organizzazione come raccontato, p.e., in The Impact of the Internet on Employment a cura di Lorenzo Pupillo Eli Noam e Leonard Waverman. Tuttavia, lo smart working è parte del processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro che inciderà sempre di più sull’equilibrio tra vita professionale e vita privata, sulla salute e sulle prospettive di chi lavora. Quindi, con vantaggi in termini di maggiore autonomia, migliore equilibrio tra vita professionale e vita privata, più produttività, riduzione dei tempi di spostamento, migliore accesso all’occupazione per i gruppi vulnerabili ed anche con svantaggi a causa del rischio di orari di lavoro più lunghi, della sovrapposizione del lavoro e della vita domestica, di un aumento dell’intensità del lavoro e mancanza di visibilità 2.

Che fare di fronte a questo paradosso dell’autonomia? 

L’intera società sta interrogandosi, il mio auspicio è che le risposte che daremo partano dalla consapevolezza che questa ulteriore accelerazione della diffusione delle tecnologie digitali modificherà profondamentre le relazioni con noi stessi, con gli altri e col nostro ecosistema sociale. Inevitabilmente il nostro benessere sarà interdipendente con la qualità della nostra interazione con il digitale ed il sistema informazionale che genera. Questa condizione implica la necessità di dare al paradosso risposte etiche, nel senso di risposte che sappiano includere nel loro orizzonte il nostro benessere digitale (“The expression ‘digital well-being’ refers to the impact of digital technologies on what it means to live a life that is good for a human being in an information society.”) 3.

Perché abbiamo davanti a noi in pari misura probabilità che le tecnologie digitali riduranno le disuguaglianze sociali faciltando il nostro benessere ed una migliore comprensione di noi stessi (pensiamo al potenziale dei big data in questi ambiti) e che i social media condizionino le nostre relazioni ed i nostri stati psicologici o che l’automazione del lavoro determini un incremento della vulnerabilità professionale dei singoli o peggio fenomeni di macelleria sociale.

Insomma, anche per il lavoro post-digitale faremo bene a tenerci nel cielo sopra di noi questa stella: “Il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa, la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta 4. Che ne dite, cari lettori, vogliamo continuare a seguire questa storia?

 

1 George Westerman è ricercatore presso la MIT Sloan Initiative on the Digital Economy. Le sue attività di ricerca si concentrano sulla leadership e l’innovazione della tecnologia digitale.

2 Telework and ICT-based mobile work: Flexible working in the digital age di Oscar Vargas Llave Irene Mandl Tina  Weber e Mathijn Wilkens.

3 Christopher Burr, Mariarosaria Taddeo, Luciano Floridi in The Ethics of Digital WellBeing: A Thematic Review.

4 Karl Polanyi, La grande tasformazione, cit. in Francesco Seghezzi, Le grandi trasformazioni del lavoro.

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